martedì 9 marzo 2010

Quella volta nel settembre del 2008 in cui Kathryn Bigelow mi disse che per fare la regista a Hollywood bisogna non accettare mai no come risposta


La notizia di gossip mi arriva dopo, a intervista conclusa, e forse è meglio così. Pare che Kathryn Bigelow e Mark Boal, giornalista e sceneggiatore del film, siano fidanzati. Ripensando al loro atteggiamento durante l’intervista, in effetti, qualcosa si sarebbe potuto intuire. Mark e Kathryn affrontano la stampa insieme, seduti vicini su un divanetto di velluto: entrambi sorseggiano Coca Cola, si guardano spesso e lei fa di tutto per coinvolgerlo nelle risposte. Un elemento affettivo che rende ancora più speciale un film che speciale è già di suo. Intanto perché The Hurt Locker è il primo film della Bigelow dopo sei anni di assenza (l’ultimo, K-19: The Widowmaker, una storia politica e di azione ambientata all’interno di un sottomarino russo, risale al 2002). Poi perché è un film molto crudo e sincero sulla guerra ed è girato da un regista donna, specializzata in film d’azione, certo, ma pur sempre donna. La storia prende spunto dall’esperienza che Boal ha vissuto come giornalista al seguito delle truppe americane in Iraq nel 2004, all’interno della EOD, l’unità speciale destinata al disarmo sul campo di ordigni esplosivi: una squadra di artificieri altamente specializzati che svolgono un lavoro ad altissimo tasso di mortalità e per i quali il rischio - e, per estensione, la guerra tutta - diventano quasi una sorta di droga, una sensazione da voler prolungare il più a lungo possibile.
Che cosa significa esattamente l’espressione “The hurt locker”?
«Letteralmente significa “il contenitore del dolore”: “locker” è infatti l’armadietto all’interno del quale i soldati conservano i loro effetti personali. In senso non letterale “hurt locker” è il luogo del dolore definitivo ed è un termine che Mark ha sentito usare dai soldati quando era con loro a Bagdad. Era un modo di dire tra di loro, di scherzare, quasi. Quando trovavano una bomba da disinnescare dicevano: “se questa esplode, finiamo tutti nell’hurt locker”».
Prima dell’inizio del film sullo schermo compare una frase: “war is a drug”, la guerra è una droga.
«La frase intera è: “la furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché la guerra è una droga”. Oggigiorno andare a combattere in Iraq è una scelta volontaria. Diversamente dal Vietnam, l’attuale l’esercito americano è formato esclusivamente da volontari, ragazzi che hanno scelto deliberatamente di partire per il fronte. Entrare a far parte di un’unità speciale come quella che si occupa del disarmo degli ordigni è un passo ancora successivo: i soldati vengono sottoposti a test psicoattitudinali e di intelligenza e solo quelli con determinati requisiti posssono far parte della squadra anti bombe. Il loro è il lavoro più pericoloso in assoluto, e per alcuni l’attrattiva maggiore è proprio questa: avere a che fare costantemente con la paura e il fascino che questa esercita sull’essere umano».
Nel film molte scene sono girate in esterno, nel deserto, e sembra quasi di toccare con mano la polvere e il caldo che soffrono i soldati, per non parlare della perfetta ricostruzione di Bagdad.
«Abbiamo girato quasi tutto in Giordania, a 5 km dal confine iracheno. Avrei voluto attraversarlo, ma c’erano troppi cecchini e la produzione non me lo ha permesso. La sensazione di autenticità che lei descrive è esattamente quello che volevamo ottenere e per farlo ci siamo basati sulle fotografie che Mark aveva fatto quando era laggiù. Volevamo che la ricostruzione fosse realistica e accurata perché volevamo mettere letteralmente gli spettatori nei panni dei soldati. Come regista la mia responsabilità è di essere il più onesta possibile nel mostrare al pubblico in che modo vivono i soldati laggiù, giorno dopo giorno».
Questi soldati sono degli eroi? Lei ne mostra gli aspetti contrastanti: decisi e senza paura quando sono sul campo di battaglia, ma incapaci di scegliere una scatola di cereali quando sono in abiti civili.
«La mia intenzione era di smantellare l’idea di eroe così come lo conosciamo dagli altri film di guerra. Sì, queste sono persone che salvano altre vite umane, è vero, ma il prezzo che pagano in termini di normalità è altissimo».
Crede che questa guerra sia diversa dalle altre?
«Tutte le guerre sono tragiche e inutili, e questa non fa certo eccezione».
Fino all’anno scorso tutti i film americani che hanno trattato il tema della guerra in Iraq sono stati puniti al botteghino, come se il pubblico non fosse ancora pronto, come se la ferita fosse ancora aperta. Crede che l’attitudine del pubblico americano  sia cambiata rispetto a qualche anno fa?
«La curiosità del pubblico per quello che sta succedendo in Iraq c’è sempre stata, anche perché i giornali e la televisione non ne parlano mai abbastanza. Poi, certo, negli ultimi tempi l’opinione pubblica è cambiata e ormai tutti pensano che questa guerra è un errore e che le truppe dovrebbero tornare a casa. Persino il presidente Bush lo ha dichiarato».
Il ritiro delle truppe americane in tempi brevi è una speranza realistica? E se sì, chi dovrebbe gestirlo?
«Sono appena stata alla convention democratica. Quando ho sentito parlare Barack Obama ho pensato: “Quest’uomo deve essere presidente”. Solo lui può riuscirci».
È difficile per una donna lavorare a Hollywood, specialmente per una come lei che fa film d’azione?
«Lavorare a Hollywood è difficile in assoluto, ma io sono testarda, quando una storia mi attrae e mi metto in testa di realizzarla mi do tanto da fare finché non ci riesco. Ah, e poi non accetto mai “no” come risposta, forse è questo il segreto».
(Grazia, 13/10/ 2008)

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