giovedì 7 maggio 2009

Quella volta in cui Marianne Faithfull mi disse: «Le cose per cui vale la pena vivere sono il tartufo bianco e Chanel».

Chissà perché i giornalisti che mi vogliono intervistare sono tutte donne».
«Davvero? Be’, forse perché ognuna di noi avrebbe voluto vivere la vita che è toccata a lei»
«È vero, la mia vita è stata straordinaria, ma credo che la vita di ogni donna sia eccezionale, se non tutta, almeno in parte».

Suona banale dirlo, ma a 62 anni Marianne Faithfull è davvero ancora una signora bellissima, e come tale si comporta. Con la mano destra scansa leggermente la frangetta dagli occhi, e ogni tanto scrolla indietro la testa per ravvivare i capelli biondissimi e molto lucidi. Arrivata a Bologna senza bagaglio per colpa della British Airways, la sua unica preoccupazione sono le vitamine che ha nella borsa e che deve prendere alle due esatte nella speranza ti attenuare il raffreddore e la raucedine che rischiano di compromettere l’esibizione della sera, un reading di sonetti di Shakespeare accompagnata dal violoncellista Vincent Segal. L’incontro con il pubblico e la stampa è infatti solo il primo degli appuntamenti che compongono il Marianne Faithfull Festival, una mini maratona di tre giorni organizzata dall'Arena del Sole-Teatro Stabile di Bologna (con il sostegno dell'Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna e della Fondazione del Monte). Altri appuntamenti sono la proiezione dei suoi film e, soprattutto, il concerto per la presentazione del suo nuovo cd, Easy come easy go, il ventiduesimo della sua carriera. Tutto questo per dire che pensare a Marianne Faithfull come ad una anziana signora ormai dedita alle attività tipiche dei pensionati è quanto di più lontano dalla realtà. Attiva, concreta, in controllo: Marianne Faithful ha l’aria e il piglio di una donna che vive perfettamente e completamente a suo agio nel presente, senza troppo sentimentalismo e nostalgia per il passato in generale e il suo in particolare («È vero, è così. Io vivo nel qui e nell’ora. Ed è per questo che la mia musica riesce ancora ad arrivare ai giovani»). Ancora più incredibile se si pensa che è una donna che con i soli suoi ricordi potrebbe agevolmente occupare almeno altre due vite. Musicista a diciasette anni («Il primo contratto discografico l’ha dovuto firmare mia madre perché io ero minorenne»), fidanzata per cinque di Mick Jagger (dal 1966 al 1970, con nel mezzo il famoso arresto in seguito all’irruzione della polizia nella casa di campagna di Keith Richards), musa e coautrice dei Rolling Stones, moglie per tre volte, madre una (di Nicholas, avuto dal primo marito John Dunbar), amante di Schifano, per un periodo - a metà degli Anni 70 - anche tossicodipendente e barbona per le strade di Londra fino alla rinascita, nel 1979, con il disco Broken English, seguito dai più recenti successi musicali (Kissin’ times, Before the poison) e cinematografici (Intimacy, Irina Palm).
Il titolo del suo ultimo cd “Easy come easy go” è molto bello, sembra quasi un approccio alla vita, una dichiarazione d’intenti. L’ha scelto lei?
«Oh sì, scelgo sempre io i titoli dei miei dischi. Easy come easy go mi piace perché esprime esattamente come mi sento adesso, ed è perfetto per i giorni che stiamo vivendo. E poi ha diversi significati: si può applicare al sesso, che è sempre una componente importante della musica, ma anche ai soldi, che sono altrettanto importanti».
Beck, Nick Cave, PJ Harvey, Damon Albarn, Elton John, Angelo Badalamenti, Tom Waits: non c’è grande artista contemporaneo che non abbia collaborato con lei. Come li convince?
«Prima di tutti sono amici. Io lavoro solo con persone che sono mie amiche. Non vado in giro a caccia di collaboratori come una vampira e non potrei mai lavorare con persone con cui non ho confidenza: tengo troppo alle relazioni umane e credo anche di essere piuttosto brava a coltivarle».
Molti giovani musicisti probabilmente la vedono ancora come una musa, la donna che ha ispirato Mick Jagger e Keith Richards quando erano al massimo della loro creatività. Ma come si sta, in realtà, nei panni di una musa?
«È stato meraviglioso, non l’ho mai negato, ma è stato un vero e proprio lavoro. Devo dire che me la sono cavata egregiamente, ma adesso non lo rifarei: adesso voglio pensare a me stessa. Per fare la musa devi stare sempre un passo indietro e occuparti degli altri, della loro creatività e delle loro esigenze. È per questo che è un lavoro da donne: noi siamo naturalmente portate ad accudire, a capire e a dare. Gli uomini sono bravi solo a prendere».
In effetti la versione maschile della musa non esiste.
«Certo che no, una musa è per definizione una ragazza giovane e bellissima. Che poi per me essere bella è stata solo uno svantaggio: negli Anni 60 nessuno credeva che una ragazza attraente potesse anche avere talento».
Soprattuto, se ad avere tante amanti era un uomo, era un figo. Se lo faceva una donna, era una cattiva madre.
«Be’ sì, io in passato sono stata giudicata piuttosto sgualdrina. Adesso però è diverso. E se ho contribuito in minima parte a rendere più semplice la vita alle donne, ne sono solo contenta».
Lei, a differenza di molti, non sembra avere un atteggiamento nostalgico verso gli Anni 60…
«No, perché me li ricordo bene e so che insieme a tante cose creativamente e culturalmente interessanti c’era anche tanta spazzatura. Questa visione per cui il passato è sempre e comunque più bello del presente non mi appartiene. Io vivo nel qui ed ora, che è poi l’unico modo per riuscire a parlare ai giovani e di essere in contatto con loro. Loro in me vedono il futuro: capiscono che se una come me non ha mollato e continua ad andare avanti, allora lo possono fare anche loro».
A proposito di cantanti giovani, c’è qualcuna che le piace?
«Lily Allen mi piace molto. E anche Amy Winehouse: ha un talento incredibile».
Che effetto fa vederla mentre spreca così la sua carriera?
«Mi mette tristezza, come a tutti, ma sono sicura che se la caverà. Non c’è ragione di fare i moralizzatori, né si può costringerla a fare ciò che lei stessa non vuole fare. Con la dipendenza da droghe è così: nessuno può aiutarti se non sei tu a volerne uscire. Se Amy Winehouse vuole distruggersi e morire giovane, nessuno potrà impedirglielo. Ma io sono sicura che troverà la forza per uscirne. Credimi, lo so».
Lei come ha fatto a ritrovare la forza?
«Volevo vivere perchè volevo essere apprezzata per il mio talento e per quello che avevo da dire. E poi l’ambizione. Sì, ero ambiziosa e questo mi ha salvato».
Più tardi, all’ora di pranzo, mi ritrovo seduta al tavolo con Mariane Faithfull, gli organizzatori del festival, l’assessore alla cultura di Bologna e due ragazze che lavorano alla promozine del suo disco. La conversazione spazia dai suoi ricordi di famiglia (il padre, militare e professore universitario, gran conoscitore di Dante e Boccaccio, ha lavorato come spisa durante la Seconda Guerra Mondiale; la madre, ballerina e attrice, vanta origini nobili) alla sua attuale vita a Parigi e di come sia fortunata per il fatto che diversi grandi stilisti le mandino a casa, in regalo, i propri abiti. Poi, rivolta all’organizzatrice del tour, dice: «Dobbiamo trovare il modo di tornare qui in settembre. Ho sentito dire che questa è zona di tartufo bianco e vorrei proprio assaggiarlo. Alla fine, le cose per cui vale la pena vivere e lavorare sono queste: il tartufo bianco e Chanel».
(Grazia, 30/04/2009)