venerdì 26 febbraio 2010

Non mi sentivo così da quando scoprii l'omosessualità di George Michael

Carly Simon ha finalmente rivelato il nome del protagonista della canzone You're so vain. No, non è Mick Jagger, né Cat Stevens, né Kris Kristofferson e neppure Warren Betty. No, nessuno dei suoi ex. No, il protagonista di You're so vain è David Geffen, professione discografico. Gay.
(per ristabilire l'equilibrio ormonale qui sotto c'è la versione dei Foo Fighters. sing Dave, sing!)



mercoledì 17 febbraio 2010

... per tutto il resto ci sono gli amici froci/8

IO: «Pensa, propoio vicino a casa tua»
AF: «Adoro essere al centro della notizia»
IO: «Così al centro che tra un po' rischi di trovarti la Santanchè in casa. L'hai vista ieri sera a Matrix, seduta sul marciapiede?»
AF: «Ho cercato, ma le sue sopracciglia profondamente assimmetriche mi distraevano»
IO: «Ti capisco. Vabbè io speravo di vederti passare»
AF: «Avrei potuto rilasciare interviste»
IO: «Certo, dopo gli autografi sul Milano-New York...»
AF: «Scema. Guarda che sulla questione degli scontri tra egiziani e sudamericani io ho un'opinione ben precisa»
IO: «Maturata in anni di riflessioni sul'argomento?»
AF: «Una volta mi sono fatto un barista egiziano»
IO: «Inchiesta sul campo: mi piace. Quindi?»
AF: «Quindi gli africani ce l'hanno più grosso dei sudamericani. Dobbiamo ancora discutere su chi cacciare e chi tenere nel quartiere?»

lunedì 15 febbraio 2010

Cattive maestre

Venerdì sera Courtney Love ha tenuto una lezione davanti agli studenti della Oxford University. Qui il servizio di Sky Tg24.

domenica 7 febbraio 2010

... per tutto il resto ci sono gli amici froci/7

Discoteca Plastic, ore 4.30 del mattino. Dopo aver cercato inutilmente di rimorchiare [omissis] spinta dalla disperazione e dall'ora tarda la povera single eterosessuale si mette a limonare con un biondino la cui unica qualità è quella di trovarsi nel posto giusto all'ora giusta. Finito di limonare la nostra SE tutta contenta prende per mano il biondino e decide di portarlo in consolle per esibire il trofeo all'amico frocio.
SE (con il tono di una undicenne che ha appena tirato giù dallo scaffale del negozio il suo giocattolo preferito): "Hey, guarda cosa ho trovato!"
AF con uno sguardo tra il disgusto e il raccapriccio e con il tono che solo la mamma dell'undicenne di cui sopra potrebbe avere: "Rimettilo subito dove l'hai preso".

venerdì 5 febbraio 2010

Quella volta in cui Mario Luzzatto Fegiz mi raccontò di quando si faceva di coca con i musicisti

C'è l'episodio di Londra: pur non essendo andato alla conferenza stampa di Madonna, scrisse di esserci stato e descrisse la cantante "con una acconciatura vagamente anni '70, biondissima, avvolta in una camicia di lamé". Peccato fosse tutto copiato dal lancio dell'Ansa. C'è l'aneddoto di Sanremo: Elton John era dato come superospite e cancellò all'ultimo minuto, ma il giorno dopo su alcune edizioni del Corriere della Sera (non Roma né Milano, ma Parma ad esempio sì) uscì ugualmente la recensione della sua esibizione mai avvenuta ("È evidente che c'è stato un problema tecnico. Se fosse stata colpa mia mi avrebbero licenziato"). C'è la gaffe del necrologio di Andrea Parodi dei Tazenda: peccato che i dettagli biografici si riferissero alla vita del jazzista Paolo Fresu (però poi si è scusato, con un messaggio postato sul sito di Fresu). C'è la frase "le cose per le quali vale la pena vivere sono le donne e la cocaina", che non smentisce, ma anzi rilancia: "Devo averla sicuramente detta. Anzi, credo di aver aggiunto anche la barca a vela". Mario Luzzatto Fegiz è da oltre 30 anni il giornalista italiano musicale più longevo e famoso, capace di trasformarsi lui stesso in personaggio (rockstar?), testimone e protagonista assoluto di una stagione che – un po' per culo, un po' per congiuntura storica favorevole – è al giorno d'oggi irripetibile. "Ho fatto una vita incredibile: viaggiavo pagato benissimo dal giornale per andare a dire se un concerto era bello o brutto. Sarà stato mica un lavoro, no?".
 Fegiz entra in Rai a 19 anni, grazie a un concorso per programmisti registi. Viene affidato alla redazione di un programma che si intitola Per voi giovani con a capo Renzo Arbore. Seduto sul divano della sua bella casa con terrazza vista Madonnina, con a fianco la giovane compagna, lui la racconta così: "Un anno decidemmo di fare un colpo di stato per far fuori Arbore. Andammo a parlare al direttore di rete cercando di convincerlo a fare la diretta, cosa di cui Arbore sapevamo essere terrorizzato. Il direttore di rete accettò e, invece, come previsto, Arbore rifiutò, così presi il suo posto.
All'epoca non mi occupavo di musica, ma dei servizi parlati. Portavo giacca, cravatta e capelli a spazzola. Forse fu questo a convincere la direzione a darmi la gestione della parte musicale, argomento di cui non capivo un cazzo, cosa che ancora oggi molti sostengono". La fortuna di Fegiz bussa però alla porta sotto forma di due musicisti che all'epoca facevano il giro dei programmi per far sentire le loro canzoni, sperando che qualcuno si convincesse a passarle. "Un giorno nel mio ufficio arrivarono due persone: erano Mogol e Battisti. Mi fecero sentire una canzone che faceva: "Che ne sai tu di un campo di grano…". A me sembrò subito un capolavoro. Chiesi perché la facessero sentire a me che ero l'ultima ruota del carro, e Mogol rispose: "Perché Arbore sostiene che questa canzone non ha un futuro". Io la lanciai, finì prima in classifica. Era il gennaio del 1971". A 23 anni Fegiz entra al Corriere della Sera grazie alla raccomandazione di un'amica del padre, proprietario della Doxa. "Il Corriere mi fece un contratto da 200mila lire al mese ma senza esclusiva per cui continuai a fare la radio". All'epoca il direttore era Spadolini. Da allora ha visto passare più direttori lui di chiunque altro: Ottone, Di Bella, Cavallari, Ostellino, Stille, Mieli due volte, Folli, De Bortoli due volte. "Sono sopravissuto a 11-12 direttori: peggio dei papi. Pensi a quante ne ho viste. Il più fantastico è stato Ottone. Aveva capito l'importanza della musica leggera, del puntare sui giovani. Grazie a lui ebbi uno spazio straordinario, impensabile all'epoca".

Nel 1976 viene nominato critico musicale. Nel 1988 inviato speciale. "Ho avuto la fortuna di prendere il treno della musica leggera proprio mentre partiva. Consideriamo che negli anni '70-'80 il cinema e la letteratura erano molto in crisi. L'unica arte viva era la musica leggera. All'epoca era tutto più semplice, non lo si può negare: non c'era così tanta roba e grazie ai cantautori – da me ampiamente appoggiati – l'Italia aveva un peso ben diverso da quello che ha adesso. Basti pensare che fino alla fine degli anni '80 gli italiani in classifica vendevano di più degli stranieri. Il grande sorpasso c'è stato con il pop giovanilista, genere nel quale noi siamo molto deboli. In più, i cantautori con l'andare del tempo hanno perso la loro forza. Adesso poi i generi musicali sono polverizzati e sia Corriere sia Repubblica sono smarriti di fronte alla scena attuale. Non voglio fare il Gianni Minà, per cui tutto quello che è nel passato è migliore del presente, ma siamo sicuri che i Bastard Sons of Dioniso meritino un'apertura degli spettacoli? Di sicuro c'è che intervistare Fabrizio De André era una cosa, Cremonini è un'altra: hanno pari dignità, ma non so se generano pari interesse".
In 40 anni di lavoro è riuscito a intervistare tutti: Paul McCartney, Bob Dylan, Mina, Mick Jagger, Madonna, Elton John. "L'unico con cui non ho mai parlato forse è John Lennon". (E Kurt Cobain? "Non ricordo, non mi sembra"). Ma erano tempi in cui gli uffici stampa neanche esistevano, e si parlava con gli artisti direttamente, senza filtri. Se poi si condividevano certi passatempi, tutto diventava ancora più facile. "All'epoca la cocaina era un flagello, nel senso che la usavano tutti. Ma era anche un passpartout incredibile, che ti permetteva di avvicinare gli artisti: ammetto che molti miei scoop sono stati facilitati dal fatto che facevo uso di cocaina, cosa che peraltro non faccio più da anni". Dei nomi? "Se lo scordi, non mi sembra proprio il caso". Mi dica allora con chi era diventato veramente amico. "De André. Era un uomo intelligentissimo e straordinario, ma anche un rompiballe pazzesco. Viveva di notte, si lavava poco, si svegliava a mezzanotte e cominciava a rompere i coglioni. Per un periodo sono stato anche molto amico di Julio Iglesias". Lester Bangs sosteneva che l'amicizia dei giornalisti musicali con i musicisti è stata la tomba del rock & roll. "Il problema è quando fanno dischi di merda: se glielo dici si offendono. Il mio primo capo lo ripeteva sempre: non andare a cena insieme a loro, al limite li raggiungi dopo". Erano davvero altri tempi: di soldi ne giravano parecchi, i viaggi si facevano esclusivamente in business e una critica positiva poteva arrivare a spostare anche 30mila copie. "Prima che arrivassi io, la corruzione c'era eccome. Basta leggere i giornali degli anni '60: la critica non esisteva, erano tutti geni, tutti bravi, non si parlava male di nessuno. Io ho rotto le uova nel paniere: ero di buona famiglia, molto ben pagato dal giornale, e ascoltavo i dischi per davvero prima di recensirli. E poi ero fondamentalmente onesto per ragioni estetiche: ho sempre pensato che ai disonesti puzzasse l'alito".

"Vuole sapere la grande fortuna della mia vita? Ho avuto sempre un ottimo rapporto con i direttori, l'azienda mi ha dato sempre grande fiducia. Io dicevo: "Questo è un genio, datemi sette colonne", e loro me le davano. Oggi non me le darebbero neanche se scoprissi il nuovo Bruce Springsteen. C'era volontà di rischiare. L'altra mia grande fortuna invece è stata di muovermi su tutti i mezzi: io non sono affatto il più bravo, ma sono il più noto". Inviato del primo quotidiano nazionale, personaggio radiofonico, rubricista sui periodici. La vera fama gliela dà però la televisione, prima assieme a Carlo Massarini in Mr. Fantasy, poi ospite in praticamente ogni programma televisivo che – da Sanremo in giù – si occupasse minimamente di musica, fino a giudice in Music Farm. "Ovvio, a un certo punto mi sono accorto che ero diventato famoso: quando andavo per strada con un artista e la gente si fermava a chiedere l'autografo a me invece che a lui. Ma quello è il potere della televisione. L'altra sera ero a cena con Stefano D'Orazio dei Pooh e Mara Maionchi e la gente li chiedeva alla Maionchi".
Poi c'è tutta una scuola di pensiero che vede in Luzzatto Fegiz il male supremo del giornalismo musicale italiano. "Mi hanno detto che sono un usurpatore, che non capisco un cazzo di musica, che dico cazzate. Io ho la coscienza a posto. Non ne capirò di musica, ma so scrivere e scrivo per quelli che non hanno mai comprato un disco. Io in 10 parole ti so dire chi è quel gruppo, che cosa fanno, da dove vengono. Buscadero e Il Mucchio mi odiano perché sono ricco e con la casa bella. Ma i veri venduti siete voi: come fate a essere liberi se la pubblicità ve la paga la Warner?". Guardi che a noi al limite ce la paga Prada. "Massì, poi voi avete il marchio prestigioso". Vabbè. Per finire: qualche rimpianto? "Se rinasco faccio il giornalista sportivo: quelli hanno 11 giocatori di cui possono scrivere. Noi abbiamo uno stronzo sul palco, quando va bene due".
(Foto: Jacopo Benassi. Pubblcato su Rolling Stone di febbraio)

martedì 2 febbraio 2010

Quella volta in cui chiesi a Jason Reitman: "Ti hanno mai detto che sembri il gemello di Dave Grohl?". E lui rispose: "Sì"


 Se George Clooney, pur sconfitto ai Golden Globe, dovesse vincere l'Oscar come attore protagonista dovrà ringraziare questo ragazzo canadese dall’aria da rockstar (camicia a quadrettoni e cappello di lana: molto grunge), le idee chiare, l’abitudine ad esporle alla velocità della luce e il vizo di passarsi sempre le mani tra i capelli quando lo fa. A soli 31 anni Jason Reitman è visto come 20 anni fa si guardava a un altro amico di Clooney, Steven Sodenbergh ovvero come al più promettente regista di Hollywood, quello che appena arrivato ha prima incuriosito, poi stupito infine convinto. Per Reitman la sequenza è stata così: prima Thank you for smoking (nominato a due Golden Globe), poi Juno (vincitore dell’Oscar per la sceneggiatura originale, ma candidato anche come miglior regia), infine Tra le nuvole, il film adulto, quello che unisce con un tocco davvero originale e raro commedia sentimentale e analisi sociale. Soprattutto, quello che pur avendo come protagonista un maschio cinquantenne solitario e senza legami che per lavoro vola da una parte all’altra degli Usa licenziando persone con spietata freddezza, dimostra la capacità di Reitman di raccontare e far parlare le donne come pochi registi sanno fare (bellissima la scena in cui la matura Vera Farmiga e la giovane Anna Kendrick si confrontano su quello che donne di diversa età cercano in un uomo).
Da “Juno” alle due protagoniste di “Tra le nuvole”. Si direbbe che lei è più interessato a raccontare le donne che gli uomini.
«È che mi sembra che le storie maschili siano state già tutte raccontate, mentre sulle donne ci sono ancora così tante cose da dire. E poi sono convinto che le donne di adesso siano estremamente interessanti: questa generazione è la prima ad avere avuto un accesso totale e illimitato al mondo del lavoro ed è la prima a sperimentare sulla propria pelle quanto sia difficile conciliare carriera e il desiderio di una famiglia».
Ne conosce tante di donne così?
«Sono le donne figlie di quelle che hanno fatto il femminismo e quindi cresciute con l’illusione di poter avere tutto e che arrivate a  30 anni si rendono conto che forse tutto non potranno avere. Sono donne estremamente intelligenti. Mia moglie è tra queste».
Il dialogo tra Alex e Natalie sulla lista di cose che si cercano in un uomo quando si hanno 20 anni e quando se ne hanno 35 è talmente veritiero che sembra incredibile l’abbia scritto un uomo. Come ha fatto?
«Ho chiesto aiuto a mia moglie: le ho chiesto di immaginare che cosa la lei di adesso avrebbe detto alla lei di quindici anni prima. Praticamente ho solo dovuto trascrivere mentre lei parlava: il dialogo era già bello fatto».
Lei è sposato, ha una figlia. Cosa c’è in lei di Ryan Bingham?
«Le sue paure sono anche le mie. Anche se sono sposato, ho una bambina stupenda e la mia vita non potrebbe essere più soddisfacente, anche a me capita a volte di fantasticare su come sarebbe non avere nessun legame, ripartire da zero in un luogo nuovo. È un pensiero eccitante».
Anche lei ha la passione di viaggiare e accumulare miglia?
«Negli aereoporti mi incanto spesso davanti al tabellone con gli orari dei voli: sto lì davanti, scelgo la destinazione col nome più esotico e poi cerco di immaginare come sarebbe la mia nuova vita laggiù».
Si dice che, in fondo, un regista fa sempre lo stesso film. Ammesso che sia vero, lei fa sempre film su che cosa? Forse la voglia delle persone di comunicare tra di loro?
«Direi di sì. Mi piace la gente, mi incuriosisce. Sono affascinato dalle relazioni umane, dal modo in cui la gente comunica e molto spesso non si capisce. Credo siano la cosa più divertente che ci sia».
Lavorerà ancora con Diablo Cody, la sceneggiatrice di “Juno”?
«Diablo è praticamente mia sorella, la mia famiglia. Purtroppo non abbiamo ancora trovato un nuovo progetto al quale lavorare, ma prima o poi succederà».
Per il ruolo di Ryan Bingham ha pensato a George Clooney dall’inizio?
«Assolutamente sì. Ho scritto il film pensando a lui e a come la sua voce avrebbe pronunciato le battute».
Ha qualche aneddoto che lo riguarda da raccontare?
«È stato un set molto noioso da quel punto di vista. Prima di cominciare le riprese avevo telefonato a Steven Soderbergh chiedendogli consigli su come lavorare con George. Mi ha risposto: “Andrà tutto bene: è la star meno star che ci sia in circolazione”. Be’, aveva ragione».
Nessun episodio divertente, neanche un pettegolezzo…
«Ah sì: non usa mai il make up. È proprio così come si vede. Non è pazzesco?»