martedì 30 giugno 2009

Quella volta in cui scrissi che Gossip Girl è la prima serie televisiva che potrebbe esistere benissimo anche senza televisione.



Quando morì Fabrizio De Andrè andai al suo funerale. Da allora ho partecipato a pochissime - quasi nessuna – dimostrazioni pubbliche di affetto per un artista, musicista, attore, vattelapesca che fosse. Non ho fotografie con rockstar, le detesto. Giusto una con Iggy Pop (poi un giorno dovrò anche raccontare che lui in quell’occasione cercò di toccarmi le tette, ma questa è un’altra storia). Non sono una fanatica del ricordo in formato digitale, ai concerti non sto tutto il tempo con il braccio alzato e il telefonino in mano pronto a scattare (e se voi lo fate, seppiatelo: vi odio) e non sono neanche mai andata in pellegrinaggio sulla tomba di Jim Morrison. Tutto questo per dire che ho rispetto alla celebrità e ai meccanismi della fama un atteggiamento sano e molto poco isterico (e no, non in contraddizione con un passato più o meno certificato di wannabe groupie), epperò l’ultima volta che sono stata a New York l’ho fatto. Ero in un ristorante di Soho e nel tavolo accanto era seduta una che aveva l’aria di essere Lively Blake, l’attrice che in Gossip Girl interpreta Serena. Siccome stava cenando con uno che non mi sembrava essere Badgley Penn (che in GG interpreta Dan: i due stanno insieme nella finzione e nella realtà) li ho fotografati e ho mandato un mms a un’amica in tipico linguaggio gosspigirliano: “S. having dinner with another guy. Poor D.!”.

Chi conosce Gossip Girl non ha bisogno di ulteriori spiegazioni e può anche saltare le prossime righe. Per tutti gli altri: narra le vicenda di un gruppo di ricchissimi e piuttosto viziati adolescenti dell’Upper East Side, la zona di Manhattan a più alta concentrazione di miliardari. Per capire quanto ricchi siano i personaggi basti pensare che vanno regolarmente a scuola in limousine, vivono in appartamenti faraonici (quando non direttamente in albergo) e hanno tutti i vizi propri delle persone sfacciatamente ricche: mentono, ingannano, tramano, si drogano, si ubriacano e fanno molto sesso, non necessariamente in questo ordine. Ovviamente sono tutti bellissimi. Serena (detta S.), la bionda, ha l’aria perennemente imbronciata, la messa in piega perfetta, un passato in rehab, un fidanzato on-off, Dan (soprannominato Lonely Boy), che vive a Brooklyn (e questa dell’innamoramento cross classe sociale è forse la cosa meno credibile di tutta la serie, sicuramente meno dei coca party e delle orge). Blair (detta Queen B.), la bruna, è il prototipo della stronza (a sua discolpa bisogna dire che ha sofferto: il padre, per dire, ha mollato la moglie ed è scappato a Parigi con un uomo). Blair ha una cameriera polacca che tratta come una schiava e una serie di amiche che tratta come cameriere. È vendicativa e cospiratrice, passionale e manipolatrice, ma è anche quella a cui spettano le battute migliori (e il miglior mantra: “I’m Grace Kelly, Grace Kelly is me”). Le due sono amiche d’infanzia, ma se ne combinano di tutti i colori (più Blair a Serena che il contrario, anche se Serena è andata a letto con Nate, il belloccio della serie, all’epoca fidanzato di Blair, e si era solo alla prima puntata). Poi ci sono i maschi: Dan, Nate, Chuck ovvero il buono, il bello e il dandy vizioso e sciupa femmine, spietato e vendicativo, una sorta di versione maschile di Blair (e infatti i due si attraggono e si respingono come solo quelli davvero simili sanno fare). C’è una ragazza sulla strada per l’anoressia (Jenny), un gay che ha già tentato il suicidio una volta (Eric), una ex punk dai solidi principi pronti però a vacillare al primo passaggio in limousine (Vanessa). Ci sono madri che hanno fatto le groupie negli Anni 90 e adesso sono borghesi signore a caccia di miliardari, padri che dovrebbero dirigere imperi finanziari ma sono più dediti alla truffa e alla cocaina. Soprattutto c’è Gossip girl, l’io narrante, una blogger anonima tenutaria dell’omonimo sito che spia, segue, pedina i protagonisti e divulga quotidianamente le loro vicende in rete, sotto forma di messaggi (“S. spotted kissing Lonely Boy”. “B. having dinner with Chuck” e così via). Insomma, in Gossip Girl è vero che ci sono tutti gli ingredienti che c’erano già, ad esempio, in The O.C. o in Beverly Hills 90210 - ovvero bugie, rabbia giovanile, confusione, orgie, tentativi di suicidio, gravidanze indesiderate, disturbi alimentari, droga, alcool - ma siccome siamo nel 2009 e tutti abbiamo un blog, usiamo twitter, chattiamo su Facebbok, fotografiamo celebrity appena ne incontriamo una, quello che anche i protagonisti fanno tutto il giorno è spedirsi messaggi e mail dai loro palmari, fotografarsi di nascosto e, appena arrivati a casa, collegarsi al computer, entrare in Gossip Girl e sputtanarsi vicendevolmente gli uni alle spalle degli altri.

- Lexi va a letto con i ragazzi al primo appuntamento. Dice che la sua è una presa di posizione politica contro l’ipocrisia sessuale dominante del maschio, o qualcosa del genere.
- Be’, non potrebbe limitarsi a votare?


Se dire - come ha fatto il New York Magazine - che Gossip Girl è la migliore serie televisiva mai trasmessa suona un po’ eccessivo, di sicuro si può affermare che è quella in cui la tecnologia ha un ruolo così importante. A parità di tormenti e drammi adolescenziali, Gossip Girl è la prima serie in cui la narrazione procede a colpi di sms e di post, ubbidendo a un paradosso di cui noi, odierni spettatori, siamo più che mai consapevoli: se una cosa non si trova in rete (variante: sui giornali, in televisione), allora non è mai successa. Non solo, lungi dall’essere la prima serie ad avere successo in Internet, Gossip Girl è la prima il cui successo in rete non è neanche lontanamente paragonabile a quello – scarso - rilevato dai dati di ascolto televisivi. Detto altrimenti: Gossip Girl parla a un pubblico così giovane e tecnologicamente avanzato da sfuggire alle rilevazioni ufficiali, ma il cui interesse e attaccamento è evidente dal numero dei download delle singole puntate effettuati su iTunes, dai video visti su youtube, dai forum, dai siti di gossip in cui i fan si scambiano commenti e pettegolezzi non solo sulla vita dei personaggi, ma anche degli attori che li interpretano. Paradossalmente, Gossip Girl è la prima serie televisiva che potrebbe esistere benissimo anche senza televisione. Il suo successo non è alimentato dall’abitudine a un unico e impedibile appuntamento settimanale, quanto piuttosto da uno scambio continuo di informazioni e opinioni 24 ore su 24, sette giorni su sette, secondo le dinamiche e con le stesse modalità proprie dei social networks (un fenomeno che il coproduttore esecutivo Stephanie Savage ha definito "cultural permeation”).

- Che cosa hai fatto con i soldi di Chuck?
- Ho aperto un fondo per adolescenti con l’herpes genitale. A suo nome.


Quando, nell’estate del 2007, sono iniziate le riprese di Gossip Girl, tutti i componenti del cast si sono dovuti trasferire stabilmente a New York. Come in una specie di campeggio estivo, vivevano tutti insieme al Gramercy Park Hotel, ignari del successo che stava per cadergli addosso. Due anni dopo è chiaro che l’altro aspetto che rende Gossip Girl un fenomeno unico nel suo genere è la totale mancanza di confine tra quello che succede sul set e quello che succede nella vita dei protagonisti. Non si sta parlando di uno show su un gruppo di amici ventenni belli e famosi che si ritrovano a New York a vivere i migliori anni della loro vita? E cosa sono gli attori che li interpretano se non un gruppo di amici ventenni belli e famosi che si ritrovano a New York a vivere i migliori anni della loro vita? Gli intrecci della finzione hanno più di un riscontro nella realtà: Serena (Lively Blake) e Dan (Badgley Penn), ad esempio, stanno insieme da più di un anno. Nate (Chace Crawford) e Chuck (Ed Westwick)sono coinquilini e dividono lo stesso appartamento nel Lower East Side. Blair si è appena fidanzata con Sebastian Stan (anche lui presente nella serie). Chuck al momento esce con Jessica Szohr, l’attrice che interpreta Vanessa. Senza contare i pettegolezzi più disparati che hanno percorso la rete in lungo e in largo e che si concentrano sulla presunta rivalità tra Lively (Serena) e Leighton (Blair) e sulla dubbia eterosessualità di Crawford (Nate) e Westwick (Chuk), dubbi che Westwick ha voluto fugare facendosi beccare a limonare con Drew Barrymore al concerto dei Kings of Leon. Il giorno dopo la foto del bacio era su tutte le rubriche di gossip di New York, quasi sicuramente scattata da una delle centinaia di piccole Gossip Girl che ogni giorno spiano, seguono, fotografano i loro beniamini. Viene quasi il dubbio che dietro a tutto questo ci sia la volontà di mettere in atto un esperimento sociale: prendere un gruppo di giovani attori, trasferirli in massa a New York, dare loro denaro, abiti, inviti alle feste, visibilità, e vedere quanto tempo impiegano a diventare delle star da tabloid, quanto deve passare prima che il pubblico si interessi alle loro vicende private almeno tanto quanto si interessa alle loro vicende sullo schermo. A giudicare dai risultati l’esperimento può dirsi perfettamente riuscito.

(Rolling Stone Italia, maggio 2009)

mercoledì 24 giugno 2009

Quella volta in cui Banksy disse: "Nel futuro ci saranno così tante persone famose che ognuno avrà diritto ai suoi 15 minuti di anonimato"


Siccome ultimamente si parla assai di una mia vecchia passione, Banksy, posto qui il pezzo che scrissi su di lui per Rolling Stone. La data esatta non la ricordo e non riesco a trovarlo nell'archivio di RS, ma saranno più di due anni fa, prima quindi che la vera identità di Banksy fosse svelata (e prima dell'articolone che gli dedicò il New Yorker nel maggio del 2007).


Chiamare Grimsby Street una via è un evidente eccesso di ottimismo. In realtà si tratta di un vicolo cieco che parte più o meno a metà di Brike Lane, appena passato il ponte, e costeggia la ferrovia. E’ corta e stretta, ed è uno di quei posti dove è sempre meglio andarci accompagnati e di giorno. Quello che rende oggi Grimsby Street un’attrazione per i turisti sono i graffiti che ricoprono il muro lungo tutta la lunghezza della strada: una specie di enorme Buddha verde, una donna con orecchini pendenti e un gran nasone, un altro viso di donna – enorme anch’esso - con una maschera di gatto e i capelli color fucsia. Di Banksy, a Grimsby Street, è rimasto poco o nulla. Eppure, anche lui ha iniziato qui. Ma quando - circa quindici anni fa - le sue opere cominciarono a comparire improvvisamente sui muri, i ponti e gli edifici pubblici di Londra e di altre città britanniche, il trattamento che ricevevano era di essere coperte o cancellate immediatamente dalle autorità locali. Oggi, i cittadini inglesi si svegliano sperando di trovare il muro del loro palazzo imbrattato da uno dei suoi disegni. Non è siano tutti improvvisamente diventati pazzi per i graffiti. Il fenomeno riguarda quasi esclusivamente lui. E’ che - al giorno d’oggi - avere un Banksy rende soldi, tanti soldi. Tre anni fa la casa d’aste Bonhams - la prima a vendere un suo lavoro – strappò 580 sterline (circa 860 euro) per una sua opera. Lo scorso 25 ottobre, la Bonhams ha venduto per 100 volte la cifra precedente l’immagine di due individui che si abbracciano con degli elmetti da sub in testa: per capirci, la stessa che compare sulla copertina di Think Tank, il disco dei Blur il cui artwork è stato curato, appunto, da Banksy.
Dell’uomo che sta dietro a questo soprannome si sa in realtà poco. Il suo vero nome potrebbe essere Robert Banks o Robin Banksy o nessuno dei due. Essendo la sua attività illegale, è comprensibile che non ami rilasciare interviste. Fotografie non ne esistono. Dotarsi di una faccia, uscire allo scoperto, significherebbe la fine della sua arte. Il giornalista del Guardian Simon Hattenston - uno dei pochi ad averlo incontrato – lo descrive come un mix tra l’attore inglese Jimmy Nail e Mike Skinner, cioè The Street. Bianco, sui 30 e con un dente d’argento. Altre cose che si sanno di lui: è nato a Bristol e qui ha cominciato la sua attività di graffitaro. A quattordici anni viene espulso da scuola, ritorna, finisce in galera per piccoli reati e non ci torna più. I graffiti, dice, lo fanno sentire per la prima volta bene con se stesso, gli danno una voce. “Ho cominciato con lo spray” racconta al Guardian “ma facevo schifo. Allora sono passato agli stencils”.
Le sue opere sono immagini semplici, quasi sempre ironiche e divertenti, semanticamente accessibili e con un livello simbolico piuttosto elementare. Una Monna Lisa che tiene in mano un lanciamissile. Due bobby che si baciano appassionatamente. John Travolta e Samuel Jackson nella tipica posa di Pulp Fiction che in mano - invece delle pistole – stringono due banane. Parte della fascinazione che sta attorno al personaggio è senz’altro dovuta al suo anonimato. Solo nell’ultimo anno, la casa d’aste inglese Sotheby’s ha venduto tre delle sue opere per cifre mai inferiori alle 50 mila sterline (74 mila euro). In nessuna delle occasioni, Banksy era presente alle vendite. A Sotheby’s sostengono che nessuno gli ha mai parlato direttamente. Tutte le trattative sono sempre condotte con il suo agente, Steve Lazarides. Sebbene la sua faccia non si sia mai vista, il suo nome non è mai stato così presente. Astenendosi da giudizi artistici, ma limitandosi alle sole considerazioni economiche, il Financial Times ha decretato questo come l’anno di Banksy. Lui, più di altri, è il simbolo di un’attività che nata come un’espressione di subcultura, carbonara e illegale, sta diventando un fenomeno mainstream, soprattutto tra chi un Banksy se lo può permettere, “ giovani quarantenni facoltosi che lavorano nella comunicazione” secondo l’identikit del tipico compratore fatto da Emma Cork, pr della Bonhams. E da quando la subcultura ha cominciato a fare soldi, Banksy ha anche cominciato ad alzare il tiro. Accanto alle tradizionali incursioni all’aperto, di recente si sono aggiunte sempre più numerose azioni di vera e propria guerriglia artistica. A novembre Banksy piazza una bambola gonfiabile vestita con la tuta arancione dei detenuti di Guantanamo all’interno di Disneyland. Ci vogliono 90 minuti prima che la sicurezza del parco giochi se ne accorga e la rimuova. Un portavoce dell’artista dichiara che l’azione ihttp://www.blogger.com/img/blank.gifntendeva “portare l’attenzione sul clima di terrore e sospetto che circonda le attività all’interno del centro di detenzione di Cuba”. Qualche settimana prima, in diversi negozi di dischi del Regno Unito, sostituisce qualcosa come 500 copie del cd di Paris Hilton con cd da lui contraffatti. Le nuove canzoni remixate portano titoli del tipo “What am I famous for?” o “What I have done?”, mentre la foto di copertina raffigura Paris nuda con una testa di cane al posto della sua. Siccome durante la sostituzione dei cd i codici a barre rimangono gli stessi, molti acquirenti non si accorgono dello scambio e si portano a casa il cd customizzato Banksy. In pochi – pare – torneranno al negozio reclamando l’originale. Nel 2005 Banksy era addirittura riuscito a piazzare una roccia raffigurante una finta incisione preistorica di un uomo che spinge un carrello della spesa all’interno del British Museum, dopo che, in un solo giorno, era già riuscito a violare quattro musei newyorkesi. Ad agoshttp://www.blogger.com/img/blank.gifto dello stesso anno, si reca in Palestina. Sulla barriera di cemento di West Bank – eretta da Israele per separare il suo territorio da quello palestinese - Banksy graffita nove immagini. I dettagli dell’azione riportati sul suo sito (www.banksy.co.uk, dove sono visibili anche alcuni video delle sue azioni) raccontano di momenti di tensione, con le guardie Israeliane che sparano in aria e gli intimano di smettere, mentre anziani signori palestinesi commentano dicendo che i graffiti “rendono il muro troppo bello, mentre noi vogliamo odiarlo”.
Sempre astenendosi da giudizi artistici di qualsiasi tipo, è chiaro che quelle di Banksy non sono solo divertenti bravate. Piuttosto, una spettacolare forma di marketing. Lui non compare mai, ma l’esposizione mediatica che riceve è immensa. L’anonimato è ovviamente una parte essenziale del gioco: aumenta il senso di mistero attorno alla sua presenza. Lo scorso ottobre Banksy ha organizzato una mostra di tre giorni - intitolata Barely Legal - in un magazzino di Los Angeles: cinquanta opere tra cui l’installazione di un elefante (vero) all’interno di una stanza, pitturato con gli stessi colori della tappezzeria. Ma la notizia che è rimbalzata su tutti i giornali del mondo è un’altra: il giorno dell’inaugurazione Brad Pitt e Angelina Jolie hanno speso oltre 200mila dollari per acquistare tre sue opere, mentre Christina Aguilera per 25mila dollari si è portata a casa una fotografia porno della Regina Vittoria in posa lesbica. Con sponsor di questo calibro è chiaro che le quotazioni di Banksy sono destinate a salire sempre di più. I falsi cd di Paris Hilton, ad esempio, si trovano già su Ebay a prezzi intorno ai 750 dollari. Sempre su Internet si trovano anche degli “stencils kit” per farsi da soli, a casa, i propri Banksy. La cosa che potrebbe complicare la vita ad acquirenti e case d’aste, rendendo sempre più difficile il riconoscimento di un Banksy vero da uno farlocco. Cheyenne Westphal – esperto d’arte contemporanea di Sotheby’s - ha spiegato al Financial Times che non in realtà non è così: “I Banksy veri sono tutti autenticati attraverso il suo agente, Lazarides. L’autenticazione consiste in un certificato che riporta l’impronta di un pollice”. Se si tratti dell’impronta del pollice di Banksy o di quello di Lazarides neanche a Sotheby’s lo sanno. La volontà di Banksy è di tenere separate le sue due anime: quella di artista di strada da quella più commerciale, il graffitaro dall’artista contemporaneo. Con le quotazioni che girano e la popolarità che ha ormai raggiunto, l’operazione è difficile: quanti più vogliono un Banksy, tanto è più alto il rischio che le sue opere – anche quelle degli esordi – finiscano sul mercato a prezzi esorbitanti. Due di queste – provenienti dalla fiancata di un barcone che era ancorato a Bristol e che è stato smantellato - saranno vendute ad aprile da Bonhams. Con un piede ancora sulla strada (che gli consente di rimanere credibile all’interno della comunità graffitara e non farsi dare del venduto) e uno ben saldamente piantato nel lucrativo mondo dell’arte contemporanea, Banksy sostiene che il bello deve ancora arrivare e che lui è solo all’inizio. E a chi gli chiede se abbia intenzione, prima o poi, di uscire allo scoperto, risponde: “Credo che Andy Warhol avesse torto. Nel futuro ci saranno così tante persone famose che ognuno avrà diritto ai suoi 15 minuti di anonimato”.

(Rolling Stone)

Carthago delenda est

Io però non capisco una cosa: se ci sono gli estremi - e un premier che viene zittito da una squillo mi pare sia un estremo sufficiente - perché l'opposizione non chiede ufficialmente le dimissioni di Berlusconi? Perchè intervistati da chiunque su qualunque argomento tutti i membri dei partiti di opposizione non concludono i loro discorsi con "e comunque chiediamo ufficialmente le dimissioni del primo ministro Silvio Berlusconi"?

mercoledì 17 giugno 2009

Quella volta in cui Mario Batali mi disse: «Michael Stipe è un mangione. Madonna una tirchia»



Tempo fa girava una barzelletta: Pierino diventava cosi famoso che, affacciandosi dal balcone di piazza San Pietro insieme al Papa, la gente chie-deva: ma chi è quel signore vestito di bianco vicino a Pierino? Lo penso mentre aspetto di incontrare Mario Batali, lo chef che con 14 ristoranti (otto nella sola Manhattan, gli altri sono a Las Vegas e Los Angeles), nove libri, cinque trasmissioni televisive all’attivo (l’ultima, Spain... On the road again, condotta con Gwyneth Paltrow, è attualmente in onda su RaiSat Gambero Rosso) e un sapiente culto della personalita, è riuscito a diventare quasi più famoso dei suoi già ultra celebri clienti. L’appuntamento è alle 11 da Otto, la pizzeria che Batali ha nel West Village, un luogo volutamente semplice, con le tovaglie a quadretti rosse e bianche e un enorrme, bellissimo bancone di marmo che domina la prima sala. Niente a che vederee con il lusso di Del Posto - il ristorante nell Meatpacking District premiato con due stelle Michelin - o con il glamour di Spotted Pig il frequentatissimo gastro-pub nel West Village, anch’esso premiato con una stella Michelin. Calzoncini corti e giubotto verde, crocs arancioni ai piedi, quando Batali arriva per prima cosa mi informa di essere arrivato in vespa e poi mi consiglia di accendere subito il registratore, perchè «parlo molto velocemente, vedrai». Nella mezz’ora successiva questo omone abruzzese di origine, ma americano di nascita, mi intrattiene sui temi più disparati, dalla politica alla musica rock, dalla cucina molecolare («Da quando il cibo è considerato una forma d’arte c’è il desiderio di provocare emotivamente e fisicamente») alle abitudini dei suoi celebri clienti («Michael Stipe è un mangione. Bono Vox adora la pasta e le costolette di agnello»).
A vederla capisco perché lo chef è oggi considerato come e più di una rockstar: fama, successo, soldi, amici famosi.
«E pensare che 30 anni uno diventava chef perché era appena tornato dall’esercito. O perché appena uscito in galera».
Lei perché è diventato chef?
«Sono cresciuto in una famiglia di americani italiani: il cibo era parte della nostra vita. In realtà all’inizio volevo volevo diventare un bancario. Poi ho studiato teatro spagnolo. Durante il college ho iniziato a lavorare in una pizzeria. Adesso ho 14 ristoranti».
Rimane la domanda: perché siete venerati come delle rockstar?
«Ormai il cibo è una forma d’arte: alla gente interessa vederne la creazione, come viene preparato. Il successo fa piacere, ma non deve far dimenticare la motivazione primaria per la quale si diventa chef: per dare piacere alle persone. Personalmente, è la parte del lavoro che mi piace di più: accudire, dare piacere alla gente, farla felice».
C’è un tratto di personalità che accomuna gli chef di successo? E se sì, qual è?
«Lo chef è sempre stato il maschio alfa per definizione, quello che urla e comanda. Adesso c’è spazio per personalità diverse: quelli che si occupano di cucina molecolare sono così cerebrali da sembrare degli intellettuali».
E la rivalità tra chef? È reale o leggenda?
«Forse una volta: il mercato era ristretto e c’era l’idea che per sopravvivere dovevi battere il tuo avversario. Adesso non è più così, anzi. La cosa migliore che mi possa capitare come ristoratore è che domani apra un ristorante qui a fianco: se si parla di lui, allora si parla anche di me. Ora come ora il mio dovere è ricordare alla gente che ci sono, che esisto, perché la scelta è così ampia che possono anche dimenticarmi. Adesso di ristoranti si parla in continuazione sui giornali, sui blog, su twitter. Il flusso di informazioni è così costante che un ristoratore deve solo farne parte. E io devo dire che in questo sono molto fortunato».
Il culto della propria personalità: ecco che cosa hanno in comune tutti i grandi chef.
«Quella è una conseguenza, che ha origine da due cose. Primo, per iniziare a fare lo chef devi pensare che il tuo cibo è migliore di quello altrui. Secondo, tutti i giorni, al lavoro, c’è qualcuno che ti dice quanto tu sia bravo, i tuoi clienti ti amano, sei circondato da gente che ti adula. Ovvio che ti monti la testa! L’importante è ogni tanto guardarsi allo specchio e ripetere: sono solo uno che prende del cibo e lo mette su un piatto. Non è poi così eccezionale. Keith Richards suona la chitarra: lui sì che è eccezionale».
A proposito di celebrities: Bono Vox, Michael Stipe, Gwyneth Paltrow. Sono davvero tutti suoi amici?
«Sono persone che non avrei mai potuto incontrare se non facessi il cuoco. Il legame con loro si crea attraverso il cibo: associano il mio nome al piacere che io riesco a dare a loro e ai loro ospiti».
Il suo collega Anthony Bourdain dice che bisogna stare alla larga dai ristoranti pieni di celebrities perché di solito il cibo è pessimo.
«Capisco cosa vuole dire, e ha ragione nei casi in cui le celebrities diventano la clientela principale. Nei miei ristoranti non è così: c’è gente normale, ci sono i newyorkesi, i turisti, gente che viaggia per lavoro. Poi, se tu ti ritrovi a cenare con Gwynetrh Paltrow seduto al tavolo a fianco, è chiaro che ti diverti di più, e quando torni a casa lo racconti agli amici».
Gwyneth Paltrow mangia? Questa è una notizia.
«Solo biologico, e niente che abbia quattro zampe. Gwyneth la conosco da quando stava con Brad Pitt: è una donna intelligente, simpatica, molto divertente. E poi sa cosa? Io giudico le persone da due fatti il modo in cui apprezzano il cibo e come trattano i camerieri. Gwyneth, Bono, Michael sono tutte persone che trattano bene i camerieri. Mentre non posso dire lo stesso di una certa Madonna...».
(Grazia 15/06/2009)

martedì 9 giugno 2009

Can you hear me, Major Tom?

Il figlio di David Bowie - il piccolo Zowie, che da quando è cresciuto si è riappropriato del nome Duncan Jones - debutta alla regia con un film che si intitola guarda caso Moon.

lunedì 8 giugno 2009

Applicazione della metafora calcistica ai risultati elettorali

È come se il Pd avesse pareggiato, epperò la squadra avversaria partiva favorita, ha giocato con l'uomo in più tutto il tempo e si è mangiata un rigore a porta vuota al 90°. E quindi, psicologicamente, è un po' come aver vinto. Un po'.

(Aggiornamento del day after: pareggiato una cippa. qui si è perso, e basta).

domenica 7 giugno 2009

Ciak, si giri

El Pais pubblica nuove foto di Villa Certosa, ormai a tutti gli effetti il set di un film porno.

giovedì 4 giugno 2009

I 10 mila euro meglio spesi nella storia del giornalismo

1) Noemi, mi hai amato? Ti ricordi quando ti chiamavo Momy?

2) Perché ai casting dove ti accompagnavo mi presentavi come tuo cugino? Ti vergognavi di me?

3) Perché non hai detto ai tuoi che ho la fedina penale sporca?

4) Ti sei davvero dimenticata delle notti in hotel a Ostia e in Calabria, io, tu e i tuoi?

5) Perché non mi hai detto che Maurizio Ciarnò, il signore di cui parlavate a casa tua, è un pezzo grosso della Rai?

6) Ricordi i momenti di tenerezza nella Panda celeste, quella dove mi hai fatto sentire la voce di Berlusconi?

7) Amo il calcio, lo sai. Com'è che non mi hai detto di essere stata alla festa del Milan? Perché non mi hai portato gli autografi dei calciatori?

8) Quando eri a Capodanno da Beslusconi, perché certe volte ti negavi al telefono?

9) Chi è questo Domenico Cozzolino che dici di conoscere dal 2006 e che è il tuo fidanzato e che io non ho mai visto?

10) Chi è Fabio per il quale mi hai lasciato? È il calciatore Borriello?

(le 10 domande di Gino a Noemi pubblicate su Novella 2000, la famosa intervista pagata 10 mila euro secondo quanto raccontato da Gino stesso a Il Giornale).

Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda le borse Louis Vuitton

La nuova campagna Louis Vuitton (anzi, il nuovo scatto della campagna Louis Vuitton realizzata da Annie Leibovitz, quella per cui ha già fotografato Coppola padre e figlia, Gorbaciov, Keith Richards, Sean Connery e non ricordo più chi altro) con protagonisti l'astronauta Buzz Aldrin - tecnicamente il secondo uomo dopo Armstrong a passeggiare sulla luna - e i colleghi Sally Ride e Jim Lovell.
(qui si vede meglio e c'è anche un bellissimo video)

Quella volta in cui Charlotte Gainsbourg mi disse: «Piangere sul set è stato bellissimo»


Dica la verità: come si è sentita la sera della prima?
«Indifesa. Sembrerà sciocco, ma è per questo che ho scelto un vestito così accollato sul davanti: volevo sentirmi protetta per affrontare tutta quella folla».

Charlotte Gainsbourg parla con un soffio di voce e dal modo in cui lo fa, dai sussurri con cui articola le risposte hai l’impressione che sia una donna geneticamente incapace di alzare i toni, figurarsi di arrabbiarsi. Siamo all’Hotel du Cap, in un capanno sulla scogliera con meravigliosa vista mare. È il giorno successivo alla premiere di Antichrist, il film di Lars von Trier che ha sconvolto Cannes e l’atmosfera è davvero un po’ quella da “day after” con Charlotte nei panni della sopravvissuta alla marea di critiche che sono piovute addosso al film del regista danese. Non che non fossero previste, dal momento che già al suo annuncio Antichrist conteneva tutti gli elementi necessari a far discutere, a partire da un regista famoso per i maltrattamenti che fa subire alle sue attrici, per arrivare a una trama semplice (moglie e marito si ritirano in campagna per superare la morte del loro unico figlio) che è solo un pretesto per la messa in scena delle più agghiaccianti e terrifiche allucinazioni riguardo a sesso, morte e dolore. Solo che un conto è essere preparati, un altro è vedere sullo schermo la Gainsbourg che si taglia con le forbici i genitali o che si masturba violentemente sotto un albero o che tortura il marito (interpretato da Willem Dafoe e con il quale le scene di sesso sono tutte violente e esagerate) fino quasi ad ammazzarlo.

Che impressione le ha fatto rivedersi sullo schermo in quelle scene così forti?
«Ieri sera è stato come vedere il film nella sua interezza per la prima volta. In precedenza avevo solo visto spezzoni che riguardavano le mie scene, ma ieri ho finalmente visto la visione del regista, la sua prospettiva, quello che voleva esprimere».
In generale le piace rivedersi sullo schermo?
«Dipende. Quando lo faccio cerco di essere il più oggettiva possibile, ma non mi riguardo mai per migliorare, come fanno altre attrici».
La domanda che molti si fanno è perché un’attrice accetti di girare un film del genere…
«Ovviamente posso rispondere solo per me e posso dire che tra me e Lars von Trier c’è stata da subito molta fiducia: sentivo che lui era con me al 100% e che non c’era brutalità nel modo in cui mi guardava. Questo mi ha permesso di eliminare le barriere, o almeno ci ho provato, così come ho provato a lasciarmi andare e a farmi portare ovunque lui volesse arrivare».
C’entra per caso anche la sua parte masochistica, ammesso che lei ne abbia una?
«Tutte le attrici ce l’hanno. In effetti sì, ho provato piacere a girare le scene di pianto e di disperazione, così come ho provato piacere nel dolore fisico. La scena dello strangolamento, ad esempio, è stata forse la più impegnativa di tutto il film: dolorosa, violenta, ma allo stesso tempo esaltante. È difficile da descrivere, ma sul set tutto era così esagerato che alla fine piacere e sofferenza erano indistinguibili».
Ci saranno però scene che le piacciono di più, di cui è più orgogliosa, e scene che le piacciono meno?
«Non mi piace il modo in cui svengo all’inizio: troppo prevedibile. Sono invece orgogliosa delle scene in cui piango e mi dispero: mi sembra che la sofferenza, lì, sia molto vera».
Prima di accettare la parte ne aveva parlato con qualcuno? C’è stato qualcuno tra i suoi amici o parenti che le ha consigliato di non fare questo film?
«No, hanno tutti capito che tanto l’avrei fatto comunque».
Ne ha parlato anche con sua madre?
«Oh sì, parecchio. Quando ero sul set ci sentivamo quasi tutti i giorni ed era divertente raccontarle e parlare come se niente fosse della mia tipica giornata di lavoro: un po’ di sangue, masturbazione, tanta violenza. A parte gli scherzi, lei è stata la mia confidente più preziosa e l’alleata più importante, quella che mi ha tranquillizzato maggiormente. E poi, non so, forse è un pensiero stupido, ma con tutti gli scandali che lei e mio padre hanno affrontato in passato, è come se mi avessero dato l’autorizzazione a fare questo film, la sicurezza che anche io avrei potuto affrontare e superare quello che hanno passato loro».
La critica maggiore a questo film e, in generale, al cinema di Lars von Trier è la misoginia: le donne sono sempre trattate piuttosto male, vittime di violenza, abusate, picchiate…
«È vero che nei suoi film le donne sono sempre in condizioni di sofferenza, dolore, tragedia, ma in realtà è il suo modo di metterle su un piedistallo. A me sinceramente non importa che le donne nei suoi film siano trattate con gentilezza o meno, lo trovo un giudizio sciocco: penso che la maniera in cui von Trier racconta il mondo femminile sia comunque interessante e vada rispettata per quello che è: la visione di un artista. E poi c’è un’altra cosa: mentre giravo avevo l’impressione che la donna fosse lui, che io stessi recitando un personaggio che in realtà era lui stesso».
Quando è importante un film come "Antichrist" nella crescita di un’artista? Lei si sente cresciuta, arricchita in questo senso?
«Lars von trier è un artista, non io. Io sono solo la materia e non ne sono affatto dispiaciuta: mi piace essere manipolata».
Però lei è anche una musicista…
«Ho solo la fortuna di lavorare con grandi musicisti. Vede, ho un patologico complesso di inferiorità nei confronti degli autori, compositori, registi: loro sì sono artisti veri, non io».
Se non come artista, come donna, che cosa le ha insegnato questo film?
«Che posso lasciarmi andare. E che ho una straordinaria capacità di dimenticare in fretta le sofferenze».
(Grazia, 02/06/2009)