mercoledì 17 giugno 2009
Quella volta in cui Mario Batali mi disse: «Michael Stipe è un mangione. Madonna una tirchia»
Tempo fa girava una barzelletta: Pierino diventava cosi famoso che, affacciandosi dal balcone di piazza San Pietro insieme al Papa, la gente chie-deva: ma chi è quel signore vestito di bianco vicino a Pierino? Lo penso mentre aspetto di incontrare Mario Batali, lo chef che con 14 ristoranti (otto nella sola Manhattan, gli altri sono a Las Vegas e Los Angeles), nove libri, cinque trasmissioni televisive all’attivo (l’ultima, Spain... On the road again, condotta con Gwyneth Paltrow, è attualmente in onda su RaiSat Gambero Rosso) e un sapiente culto della personalita, è riuscito a diventare quasi più famoso dei suoi già ultra celebri clienti. L’appuntamento è alle 11 da Otto, la pizzeria che Batali ha nel West Village, un luogo volutamente semplice, con le tovaglie a quadretti rosse e bianche e un enorrme, bellissimo bancone di marmo che domina la prima sala. Niente a che vederee con il lusso di Del Posto - il ristorante nell Meatpacking District premiato con due stelle Michelin - o con il glamour di Spotted Pig il frequentatissimo gastro-pub nel West Village, anch’esso premiato con una stella Michelin. Calzoncini corti e giubotto verde, crocs arancioni ai piedi, quando Batali arriva per prima cosa mi informa di essere arrivato in vespa e poi mi consiglia di accendere subito il registratore, perchè «parlo molto velocemente, vedrai». Nella mezz’ora successiva questo omone abruzzese di origine, ma americano di nascita, mi intrattiene sui temi più disparati, dalla politica alla musica rock, dalla cucina molecolare («Da quando il cibo è considerato una forma d’arte c’è il desiderio di provocare emotivamente e fisicamente») alle abitudini dei suoi celebri clienti («Michael Stipe è un mangione. Bono Vox adora la pasta e le costolette di agnello»).
A vederla capisco perché lo chef è oggi considerato come e più di una rockstar: fama, successo, soldi, amici famosi.
«E pensare che 30 anni uno diventava chef perché era appena tornato dall’esercito. O perché appena uscito in galera».
Lei perché è diventato chef?
«Sono cresciuto in una famiglia di americani italiani: il cibo era parte della nostra vita. In realtà all’inizio volevo volevo diventare un bancario. Poi ho studiato teatro spagnolo. Durante il college ho iniziato a lavorare in una pizzeria. Adesso ho 14 ristoranti».
Rimane la domanda: perché siete venerati come delle rockstar?
«Ormai il cibo è una forma d’arte: alla gente interessa vederne la creazione, come viene preparato. Il successo fa piacere, ma non deve far dimenticare la motivazione primaria per la quale si diventa chef: per dare piacere alle persone. Personalmente, è la parte del lavoro che mi piace di più: accudire, dare piacere alla gente, farla felice».
C’è un tratto di personalità che accomuna gli chef di successo? E se sì, qual è?
«Lo chef è sempre stato il maschio alfa per definizione, quello che urla e comanda. Adesso c’è spazio per personalità diverse: quelli che si occupano di cucina molecolare sono così cerebrali da sembrare degli intellettuali».
E la rivalità tra chef? È reale o leggenda?
«Forse una volta: il mercato era ristretto e c’era l’idea che per sopravvivere dovevi battere il tuo avversario. Adesso non è più così, anzi. La cosa migliore che mi possa capitare come ristoratore è che domani apra un ristorante qui a fianco: se si parla di lui, allora si parla anche di me. Ora come ora il mio dovere è ricordare alla gente che ci sono, che esisto, perché la scelta è così ampia che possono anche dimenticarmi. Adesso di ristoranti si parla in continuazione sui giornali, sui blog, su twitter. Il flusso di informazioni è così costante che un ristoratore deve solo farne parte. E io devo dire che in questo sono molto fortunato».
Il culto della propria personalità: ecco che cosa hanno in comune tutti i grandi chef.
«Quella è una conseguenza, che ha origine da due cose. Primo, per iniziare a fare lo chef devi pensare che il tuo cibo è migliore di quello altrui. Secondo, tutti i giorni, al lavoro, c’è qualcuno che ti dice quanto tu sia bravo, i tuoi clienti ti amano, sei circondato da gente che ti adula. Ovvio che ti monti la testa! L’importante è ogni tanto guardarsi allo specchio e ripetere: sono solo uno che prende del cibo e lo mette su un piatto. Non è poi così eccezionale. Keith Richards suona la chitarra: lui sì che è eccezionale».
A proposito di celebrities: Bono Vox, Michael Stipe, Gwyneth Paltrow. Sono davvero tutti suoi amici?
«Sono persone che non avrei mai potuto incontrare se non facessi il cuoco. Il legame con loro si crea attraverso il cibo: associano il mio nome al piacere che io riesco a dare a loro e ai loro ospiti».
Il suo collega Anthony Bourdain dice che bisogna stare alla larga dai ristoranti pieni di celebrities perché di solito il cibo è pessimo.
«Capisco cosa vuole dire, e ha ragione nei casi in cui le celebrities diventano la clientela principale. Nei miei ristoranti non è così: c’è gente normale, ci sono i newyorkesi, i turisti, gente che viaggia per lavoro. Poi, se tu ti ritrovi a cenare con Gwynetrh Paltrow seduto al tavolo a fianco, è chiaro che ti diverti di più, e quando torni a casa lo racconti agli amici».
Gwyneth Paltrow mangia? Questa è una notizia.
«Solo biologico, e niente che abbia quattro zampe. Gwyneth la conosco da quando stava con Brad Pitt: è una donna intelligente, simpatica, molto divertente. E poi sa cosa? Io giudico le persone da due fatti il modo in cui apprezzano il cibo e come trattano i camerieri. Gwyneth, Bono, Michael sono tutte persone che trattano bene i camerieri. Mentre non posso dire lo stesso di una certa Madonna...».
(Grazia 15/06/2009)
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bel pezzo, complimenti!
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