C'è l'episodio di Londra: pur non essendo andato alla conferenza stampa di Madonna, scrisse di esserci stato e descrisse la cantante "con una acconciatura vagamente anni '70, biondissima, avvolta in una camicia di lamé". Peccato fosse tutto copiato dal lancio dell'Ansa. C'è l'aneddoto di Sanremo: Elton John era dato come superospite e cancellò all'ultimo minuto, ma il giorno dopo su alcune edizioni del Corriere della Sera (non Roma né Milano, ma Parma ad esempio sì) uscì ugualmente la recensione della sua esibizione mai avvenuta ("È evidente che c'è stato un problema tecnico. Se fosse stata colpa mia mi avrebbero licenziato"). C'è la gaffe del necrologio di Andrea Parodi dei Tazenda: peccato che i dettagli biografici si riferissero alla vita del jazzista Paolo Fresu (però poi si è scusato, con un messaggio postato sul sito di Fresu). C'è la frase "le cose per le quali vale la pena vivere sono le donne e la cocaina", che non smentisce, ma anzi rilancia: "Devo averla sicuramente detta. Anzi, credo di aver aggiunto anche la barca a vela". Mario Luzzatto Fegiz è da oltre 30 anni il giornalista italiano musicale più longevo e famoso, capace di trasformarsi lui stesso in personaggio (rockstar?), testimone e protagonista assoluto di una stagione che – un po' per culo, un po' per congiuntura storica favorevole – è al giorno d'oggi irripetibile. "Ho fatto una vita incredibile: viaggiavo pagato benissimo dal giornale per andare a dire se un concerto era bello o brutto. Sarà stato mica un lavoro, no?".
Fegiz entra in Rai a 19 anni, grazie a un concorso per programmisti registi. Viene affidato alla redazione di un programma che si intitola Per voi giovani con a capo Renzo Arbore. Seduto sul divano della sua bella casa con terrazza vista Madonnina, con a fianco la giovane compagna, lui la racconta così: "Un anno decidemmo di fare un colpo di stato per far fuori Arbore. Andammo a parlare al direttore di rete cercando di convincerlo a fare la diretta, cosa di cui Arbore sapevamo essere terrorizzato. Il direttore di rete accettò e, invece, come previsto, Arbore rifiutò, così presi il suo posto.
All'epoca non mi occupavo di musica, ma dei servizi parlati. Portavo giacca, cravatta e capelli a spazzola. Forse fu questo a convincere la direzione a darmi la gestione della parte musicale, argomento di cui non capivo un cazzo, cosa che ancora oggi molti sostengono". La fortuna di Fegiz bussa però alla porta sotto forma di due musicisti che all'epoca facevano il giro dei programmi per far sentire le loro canzoni, sperando che qualcuno si convincesse a passarle. "Un giorno nel mio ufficio arrivarono due persone: erano Mogol e Battisti. Mi fecero sentire una canzone che faceva: "Che ne sai tu di un campo di grano…". A me sembrò subito un capolavoro. Chiesi perché la facessero sentire a me che ero l'ultima ruota del carro, e Mogol rispose: "Perché Arbore sostiene che questa canzone non ha un futuro". Io la lanciai, finì prima in classifica. Era il gennaio del 1971". A 23 anni Fegiz entra al Corriere della Sera grazie alla raccomandazione di un'amica del padre, proprietario della Doxa. "Il Corriere mi fece un contratto da 200mila lire al mese ma senza esclusiva per cui continuai a fare la radio". All'epoca il direttore era Spadolini. Da allora ha visto passare più direttori lui di chiunque altro: Ottone, Di Bella, Cavallari, Ostellino, Stille, Mieli due volte, Folli, De Bortoli due volte. "Sono sopravissuto a 11-12 direttori: peggio dei papi. Pensi a quante ne ho viste. Il più fantastico è stato Ottone. Aveva capito l'importanza della musica leggera, del puntare sui giovani. Grazie a lui ebbi uno spazio straordinario, impensabile all'epoca".
Nel 1976 viene nominato critico musicale. Nel 1988 inviato speciale. "Ho avuto la fortuna di prendere il treno della musica leggera proprio mentre partiva. Consideriamo che negli anni '70-'80 il cinema e la letteratura erano molto in crisi. L'unica arte viva era la musica leggera. All'epoca era tutto più semplice, non lo si può negare: non c'era così tanta roba e grazie ai cantautori – da me ampiamente appoggiati – l'Italia aveva un peso ben diverso da quello che ha adesso. Basti pensare che fino alla fine degli anni '80 gli italiani in classifica vendevano di più degli stranieri. Il grande sorpasso c'è stato con il pop giovanilista, genere nel quale noi siamo molto deboli. In più, i cantautori con l'andare del tempo hanno perso la loro forza. Adesso poi i generi musicali sono polverizzati e sia Corriere sia Repubblica sono smarriti di fronte alla scena attuale. Non voglio fare il Gianni Minà, per cui tutto quello che è nel passato è migliore del presente, ma siamo sicuri che i Bastard Sons of Dioniso meritino un'apertura degli spettacoli? Di sicuro c'è che intervistare Fabrizio De André era una cosa, Cremonini è un'altra: hanno pari dignità, ma non so se generano pari interesse".
In 40 anni di lavoro è riuscito a intervistare tutti: Paul McCartney, Bob Dylan, Mina, Mick Jagger, Madonna, Elton John. "L'unico con cui non ho mai parlato forse è John Lennon". (E Kurt Cobain? "Non ricordo, non mi sembra"). Ma erano tempi in cui gli uffici stampa neanche esistevano, e si parlava con gli artisti direttamente, senza filtri. Se poi si condividevano certi passatempi, tutto diventava ancora più facile. "All'epoca la cocaina era un flagello, nel senso che la usavano tutti. Ma era anche un passpartout incredibile, che ti permetteva di avvicinare gli artisti: ammetto che molti miei scoop sono stati facilitati dal fatto che facevo uso di cocaina, cosa che peraltro non faccio più da anni". Dei nomi? "Se lo scordi, non mi sembra proprio il caso". Mi dica allora con chi era diventato veramente amico. "De André. Era un uomo intelligentissimo e straordinario, ma anche un rompiballe pazzesco. Viveva di notte, si lavava poco, si svegliava a mezzanotte e cominciava a rompere i coglioni. Per un periodo sono stato anche molto amico di Julio Iglesias". Lester Bangs sosteneva che l'amicizia dei giornalisti musicali con i musicisti è stata la tomba del rock & roll. "Il problema è quando fanno dischi di merda: se glielo dici si offendono. Il mio primo capo lo ripeteva sempre: non andare a cena insieme a loro, al limite li raggiungi dopo". Erano davvero altri tempi: di soldi ne giravano parecchi, i viaggi si facevano esclusivamente in business e una critica positiva poteva arrivare a spostare anche 30mila copie. "Prima che arrivassi io, la corruzione c'era eccome. Basta leggere i giornali degli anni '60: la critica non esisteva, erano tutti geni, tutti bravi, non si parlava male di nessuno. Io ho rotto le uova nel paniere: ero di buona famiglia, molto ben pagato dal giornale, e ascoltavo i dischi per davvero prima di recensirli. E poi ero fondamentalmente onesto per ragioni estetiche: ho sempre pensato che ai disonesti puzzasse l'alito".
"Vuole sapere la grande fortuna della mia vita? Ho avuto sempre un ottimo rapporto con i direttori, l'azienda mi ha dato sempre grande fiducia. Io dicevo: "Questo è un genio, datemi sette colonne", e loro me le davano. Oggi non me le darebbero neanche se scoprissi il nuovo Bruce Springsteen. C'era volontà di rischiare. L'altra mia grande fortuna invece è stata di muovermi su tutti i mezzi: io non sono affatto il più bravo, ma sono il più noto". Inviato del primo quotidiano nazionale, personaggio radiofonico, rubricista sui periodici. La vera fama gliela dà però la televisione, prima assieme a Carlo Massarini in Mr. Fantasy, poi ospite in praticamente ogni programma televisivo che – da Sanremo in giù – si occupasse minimamente di musica, fino a giudice in Music Farm. "Ovvio, a un certo punto mi sono accorto che ero diventato famoso: quando andavo per strada con un artista e la gente si fermava a chiedere l'autografo a me invece che a lui. Ma quello è il potere della televisione. L'altra sera ero a cena con Stefano D'Orazio dei Pooh e Mara Maionchi e la gente li chiedeva alla Maionchi".
Poi c'è tutta una scuola di pensiero che vede in Luzzatto Fegiz il male supremo del giornalismo musicale italiano. "Mi hanno detto che sono un usurpatore, che non capisco un cazzo di musica, che dico cazzate. Io ho la coscienza a posto. Non ne capirò di musica, ma so scrivere e scrivo per quelli che non hanno mai comprato un disco. Io in 10 parole ti so dire chi è quel gruppo, che cosa fanno, da dove vengono. Buscadero e Il Mucchio mi odiano perché sono ricco e con la casa bella. Ma i veri venduti siete voi: come fate a essere liberi se la pubblicità ve la paga la Warner?". Guardi che a noi al limite ce la paga Prada. "Massì, poi voi avete il marchio prestigioso". Vabbè. Per finire: qualche rimpianto? "Se rinasco faccio il giornalista sportivo: quelli hanno 11 giocatori di cui possono scrivere. Noi abbiamo uno stronzo sul palco, quando va bene due".
(Foto: Jacopo Benassi. Pubblcato su Rolling Stone di febbraio)
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