La frase che non ti aspetti arriva all’inizio dell’intervista: «Ieri sera sono stato fino alle 4 del mattino con Stefano Bonaga a parlare di filosofia». Siccome subito dopo ci aggiunge una battuta («lui ha “asciugato” me per ore, adesso io “asciugo” te») l'atroce sospetto che sia stata detta con snobistico compiacimento o, peggio, per un recesso di velinismo del tipo voglio essere apprezzato per la mia intelligenza e non per i miei occhioni verdi, viene attenuato da una risata. In fondo non c’è bisogno di discutere di Nietzsche per prendere sul serio Riccardo Scamarcio. Basta far parlare la sua carriera, cosa serissima sia per la quantità e la qualità dei film girati. Solo quest’anno Scamarcio è protagonista di tre dei titoli più attesi: La prima linea di Renato De Maria sulla storia di Sergio Segio, L’uomo nero di Sergio Rubini in cui interpreta il fratello della sua compagna Valeria Golino e Mine vaganti, il nuovo film di Ferzan Ozpetek le cui riprese sono cominciate da due settimane e sul quale Scamarcio ha la bocca cucitissima tanto da non voler rivelare nulla sul suo personaggio (a domanda diretta: reciti la parte di un etero o di un gay?, sostiene di non saperlo ancora, ma se le voci che circolano sono vere la risposta giusta è la seconda). E poi c’è ovviamente Il grande sogno diretto da Michele Placido appena presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Ambientato nel 1968, il film racconta la storia del movimento studentesco dell’epoca attraverso le vite di tre personaggi: Laura (Jasmine Trinca), Libero (Luca Argentero) e Nicola, quello interpretato da Scamarcio, che ricalca la storia autobiografica di Michele Placido: un poliziotto originario del sud che dopo essere stato coinvolto negli scontri con i manifestanti decide di lasciare la polizia per seguire il sogno di diventare attore.
Con tutti i film che ha girato sull’argomento ormai è un esperto del ‘68. Potrebbe tenere corsi all’Università. Se dovesse farlo cosa direbbe?
«Che è stato il nostro periodo più bello. Circolava energia positiva data dal fatto che si era stati peggio ma con la consapevolezza che da lì in avanti si sarebbe stati meglio. Che è poi il contrario di quello che succede oggi. In quegli anni le persone erano più candide, meno maliziose, più innocenti».
Il personaggio di Nicola è fatto apposta perché il pubblico gli voglia bene: dopo dieci minuti ti sei già affezionato.
«Nicola è il simbolo della semplicità: vuole partecipare anche lui a questa cosa del ‘68 ma non sa bene cos’è. Ha una umile e dignitosa posizione da spettatore rispetto al movimento. In fondo rispecchia la storia: lui viene dalla provincia e il ‘68 l’hanno vissuto davvero solo a Roma e Milano, la provincia è rimasta un po’ a guardare. In Nicola c’è molta inadeguatezza, il non sentirsi all’altezza, ma allo stesso tempo la volontà di prendersi delle responsabilità civili e sociali».
Nicola sogna di diventare attore: oltre che l’autobiografia di Michele Placido è anche la sua.
«Be’ la dinamica in effetti è simile. Anche io vengo dal sud, dalla Puglia, ma ho avuto la fortuna di iniziare a fare teatro già lì».
Come mai ha iniziato con il teatro?
«Quando ho deciso di fare l’attore ho pensato che il teatro fosse il posto giusto per capire davvero cosa vuol dire fare questo mestiere, e anche quanto è pericoloso. Non mi sono sbagliato».
In che senso pericoloso?
«La paura e l’ansia che provi prima di andare in scena è una cosa che non provi più, ma è quella per cui continui a recitare. È adrenalina. La sfida, mettersi alla prova: il mestiere dell’attore è un po’ questo. Io sono sempre stato spericolato, già da bambino mi prendevo mille rischi, mi facevo male, combinavo pasticci».
Invece poi è arrivato il cinema. E la popolarità. L’aveva messa in conto oppure no?
«Chi decide di fare cinema per forza di cose ci pensa. Sia detto senza prendersi troppo sul serio, ma se uno fa il cinema ne conosce anche i meccanismi, le dinamiche. Il cinema funziona anche per l’aspetto glamour, per la costruzione del sogno che regala».
Quindi non le da fastidio essere diventato per un certo tempo l’idolo di un cinema diciamo romantico e giovanile.
«Diventare un prototipo di uomo o di donna è sempre riduttivo, però è semplice e funzionale per chi guarda: l’alone che c’è intorno a te è anche quello che spinge la gente a venire al cinema a vedere i tuoi film. Poi, certo, non è detto che quello che un attore rappresenta e quello che un attore è siano la stessa cosa, anzi. Tra l’idea che circola di me e come sono io veramente c’è una discrepanza totale».
E qual è l’idea che circola di lei, scusi?
«Qualcuno dice che sono antipatico, altri che sono addirittura uno stronzo. Invece se mi conosci capisci sono un amicone, uno che scherza sempre. Sono davvero così, non riesco a essere serio due minuti, abbatto subito le distanze formali. E uso l’autoironia, che è sempre fondamentale».
L’interesse della gente per la storia tra lei e Valeria le da fastidio?
«No. Siamo due persone conosciute, fa parte della vita che conduciamo».
Ma si è chiesto come mai c’è così tanta curiosità intorno a voi?
«Non me lo chiedo, non mi importa. Sono problemi di altri. Noi viviamo questa relazione in assoluta tranquillità come due persone che si amano. Comunque adesso va meglio: forse dopo quattro anni hanno capito che è una storia vera».
A questo punto dovrei chiederle se avete intenzione di sposarvi. Facciamo che la prendo larga: crede nel matrimonio?
«Assolutamente sì. Il matrimonio è una cosa seria, una promessa d’amore e fedeltà importante. I miei genitori sono sposati da 32 anni e sono ancora innamorati. Si sono sposati giovani, hanno avuto i figli subito e ancora oggi resistono. Ho molto rispetto per chi decide di sposarsi. Allo stesso modo rispetto chi ha deciso di non farlo: ci vuole coraggio anche a cercare se stessi da soli, in completa solitudine».
Lei invece è sempre stato in coppia…
«Sì, per me è fondamentale. Non sarei io senza una donna al mio fianco. Sarei perso. Sono un’animale sociale. Ho bisogno di condividere, se no per me non ha senso niente».
È una cosa che ha capito di recente?
«No, da ragazzino, avrò avuto 15 anni. Questa esigenza di stare in due l’ho sempre sentita e riconosciuta. Non ho mai avuto complessi, neanche quando i miei amici erano tutti single e facevano le tipiche serate tutti uomini. Pensavo: «contenti voi».
E le è andata sempre bene in amore?
«Direi di sì. Due amori veri in 30 anni non è poco. Sono stato fortunato, molto fortunato».
Tra poco la vedremo in un film con Valeria. Com’è stato trovarsi sul set tutte le mattine con la propria compagna?
«Molto divertente. La mia parte è quella di uno scapolone che non se ne vuole andare da casa per non lasciare l’appartamento alla sorella, Valeria appunto. Praticamente litighiamo tutto il tempo».
(Grazia, 17/09/2009)
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