martedì 2 marzo 2010
Quella volta in cui Charlotte Gainsbourg mi disse che quando la chiamano artista lei si vergogna
La cosa più incredibile di Charlotte Gainsbourg è il modo in cui ti racconta anche le cose più intime. Soprattutto, il fatto che te le racconti. Ci sono intervistati che si mettono sulla difensiva dal momento in cui accendi il registratore, altri con cui hai la netta impressione che alla prima domanda un po’ più personale (e per alcuni anche “le piace la pastasciutta?” rientra nella categoria) chiameranno il publicist e ti faranno cacciare in malo modo. Con lei no, anzi. Con lei hai la non comune sensazione che potresti chiederle tutto, che risponderà a tutto con quella sua vocina e quei modi delicati, e forse proprio per questo, perché la vedi così disponibile e forse anche un po’ indifesa, sei la prima tu a trattenerti, a non affondare, perché ti viene quasi voglia di proteggerla. Ancora di più quando l’argomento di conversazione riporta a un episodio dell’estate del 2007: Gainsbourg batte la testa facendo sci d’acqua. Si rialza come se niente fosse. Mesi dopo e dopo settimane di feroci mal di testa, si sottopone a una risonanza magnetica (la sigla in francese è, appunto, IRM) il cui risultato è chiaro: emorragia cerebrale. «Sono stata per un mese a rischio di morte e non ho avuto nessun segnale del pericolo che stavo correndo», ricorda lei. «È stata questa la cosa più sconvolgente. I medici non potevano credere che non avessi avuto nessun sintomo. Continuavo a pensare: e se mi succede di nuovo? Come faccio ad accorgermene?». Adesso Gainsbourg sta bene, anzi «fisicamente stavo già bene il giorno dopo l’intervento. La parte più difficile è stata il recupero psicologico: ero terrorizzata, come se mi avessero tagliato le gambe. Non sapevo da che parte andare, ero molto instabile. Lavorare a questo disco è stato il modo migliore per uscire dal tunnel in cui ero finita». IRM è quindi diventato il titolo del suo terzo disco, un progetto realizzato insieme al musicista americano Beck e in cui in un brano si sente anche il suono dello scanner.
Come mai ha deciso di rendere pubblica una cosa così privata come la sua salute?
«Non avendo composto né la musica né le parole, volevo però trovare un modo di rendere IRM un lavoro mio, personale. In realtà all’inizio avevo pensato di mettere solo il suono della risonanza all’interno di un brano e a Beck l’idea era piaciuta molto. Poi, quasi senza dircelo, il disco si è sviluppato intorno ai temi del ricordo, della vita, della perdita. È stato un processo naturale, istintivo. Non ci siamo mai seduti a tavolino dicendo: ok, adesso scriviamo canzoni che parlino della mia malattia».
Le malattie alle volte ci fanno scoprire più forti di quello che pensavamo di essere. Anche per lei è stato così?
«L’opposto. Fino all’incidente ho sempre pensato a me come a una persona forte: dopo mi sono scoperta debole e in preda agli attacchi di panico, assolutamente vulnerabile».
Dopo l’intervento ha cominciato a incidere questo disco con Beck e a girare “Antichrist” con Lars von Trier: due personaggi non esattamente facili con cui lavorare. Si è scelta una vera terapia d’urto per uscire dalla crisi...
«Sono molto insicura e mi piace affidarmi gli altri, lasciare a loro il controllo delle situazioni: mi piace l’idea di potermi abbandonare completamente a qualcosa di più forte. Quando lavori a un film o a un disco non hai tempo per pensare ai tuoi problemi: è un modo per dimenticarti di te stessa, per uscire da quello che sei. Era proprio quello di cui avevo bisogno e infatti è stato molto terapeutico».
Lei giustamente non si ricorda, ma noi ci eravamo già incontrate a Cannes, lo scorso maggio. Allora mi aveva detto di non considerarsi un’artista, anzi che la parola la mette quasi in soggezione. In questo disco però lei canta come una vera cantante.
«Be’ sì, nel disco precedente (intitolato 5:55, ndr) ero molto più timida e vergognosa. Con Beck è stato più facile perché eravamo solo noi due e il tecnico del suono, era una situazione molto intima. Lui è stato bravo a farmi sentire che potevo sperimentare e che nessuno mi avrebbe giudicato per questo».
Il fatto di non sentirsi un’artista ha a che vedere con l’essere figlia di due icone del cinema e della musica?
«Sono cresciuta con un padre che era solito ripetere che la sua stessa musica non era niente di importante, che gli artisti veri erano Chopin e Beethoven, non lui. Stessa cosa per mia madre: non si è mai piaciuta, non le sono mai piaciuti i suoi film, non si è mai considerata una grande attrice. Ecco, ora si immagini come possa sentirmi io, io che non ho mai davvero composto una canzone o scritto una sceneggiatura. E poi la parola artista è imbarazzante di suo: sentirla abbinata a me mi fa vergognare».
Amy Winehouse sul suo twitter ha scritto di vergognarsi di suo padre, perché va in giro a rilasciare interviste come una rockstar. Lei si è mai vergognata di qualcosa che hanno fatto i suoi genitori?
«Oh sì. Quando ero bambina odiavo essere accompagnata a scuola da mia madre perché sapevo che i miei compagni di classe prendevano in giro lei e mio padre. Allo stesso tempo però ero orgogliosa di loro due e quindi i commenti dei miei coetanei non mi ferivano più di tanto. La volta in cui mi sono vergognata di più in assoluto è stata quando mio padre, per paura che mi rapissero, mi aveva messo alle calcaglia due guardie del corpo che mi seguivano a scuola. Ero piccola, mi sembrava tutto un gioco, solo dopo ho capito che aveva ragione perché c’era un pericolo reale».
È ancora doloroso per lei ascoltare le canzoni di suo padre?
«Sì, perché sentendo la voce alle volte mi dimentico che è morto. È una sensazione strana, mi fa ancora soffrire».
Però poi nella vita ha deciso di fare anche la cantante.
«Pensavo che non sarei mai riuscita a cantare senza mio padre. Tutte le mie esperienze musicali sono da sempre associate a lui: dalla musica classica che mi faceva ascoltare da bambina, al primo disco a cui abbia mai lavorato (Lemon incest, ndr). Quando lui è morto è come se fosse morta la voglia di fare musica. Ho impiegato molto tempo per ritrovare dentro di me quel desiderio».
Ai suoi figli non fa ascoltare le canzoni del nonno?
«Con loro ho usato questo trucco: ho messo nei loro iPod i dischi di mio padre e ho aspettato che li scoprissero da soli. Mi fa piacere pensare che si stiano costruendo delle fantasie personali su di lui a partire dalla sua musica».
Certo che per un’insicura lei si è scelta delle sfide mica male. Qual è la prossima? Un nuovo disco o un film?
«Cantare dal vivo. Mia madre insiste da tempo perché lo faccia e alla fine mi ha convinto».
(Grazia, 16/02/2010)
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