martedì 10 novembre 2009
Quella volta in cui Michael Moore mi disse che il dovere principale di un regista è fare buoni film e che la politica viene dopo
Quando nel 1989 realizzò Roger & Me, agli occhi di tutti Michael Moore era uno di quei nerd che si vedono nei film sulle università americane: sfigato, grasso e sempre con quel cappellino da baseball sugli occhi. Venti anni dopo, il cappellino in testa c’è sempre. Anche la stazza è sempre quella. In aggiunta Moore ha: un Oscar vinto nel 2002 con Bowling for Columbine, una Palma D’Oro vinta a Cannes due anni dopo con Fahrenheit 9/11 e un culto per la sua persona che sfiora quello di solito destinato ai santi o alle rockstar. Lo si capisce - oltre che dal successo dei suoi film - anche e soprattutto dal rispetto misto a venerazione con cui i giornalisti aspettano di venire introdotti in sua presenza secondo una trafila fatta di anticamera, presentazione con stretta di mano della sua publicist seguita da breve spiegazione su dove Mr. Moore prenderà posto, attesa, entrata in scena della star. Abbastanza per infastidire chi vede in Moore un furbone sensibile ai problemi sociali ma anche al proprio portafoglio e che, trovata una formula vincente, la ripete all’infinito con mutazioni minime. Capitalismo: una storia d’amore è infatti l’ennesima variazione sul tema del documentario serio che diventa materiale da intrattenimento grazie all’ingombrante e buffa presenza del regista, al montaggio, al ritmo, al tentativo di mettere in imbarazzo l’interlocutore. Sprofondato su una sedia, con una felpa blu addosso e sul tavolo pezzi di cioccolato amaro, Moore risponde alle domande come farebbe un oracolo: ascolta in silenzio, fa lunghe pause, ogni tanto chiude gli occhi. Poi inizia a raccontare di quando viveva a Filt in Michigan, guadagnava 90 dollari a settimana, non sapeva niente di cinematografia e passava le serate al cinema East Village divorando i film di Fellini, Fassbinder, Bergman, «l’unica scuola che abbia mai avuto», dice.
Essere diventato l’icona di un certo tipo di cinema comporta delle pressioni ulteriori oltre a quelle che un normale regista ha tutte le volte che esce un suo film?
«No. Ha presente la prima scena, quella della famiglia che viene sfrattata da casa? Non l’ho girata io. Ho trovato il video nella posta. Ne ricevo a centinaia di video come quello, di lettere, di richieste. È una sofferenza di cui sono quotidianamente testimone. Ecco, se c’è una responsabilità che sento è questa: raccontare le storie di persone che da me vogliono aiuto trasformandole in qualcosa di interessante anche per gli altri, e cercando di mantenere sempre il mio senso dell’umorismo».
Quanto è importante l’umorismo nei suoi film?
«Fondamentale. La mia famiglia ha origini irlandesi, un popolo che è abituato ad avere una visione del mondo buia e pessimista. Lo humor è il modo che usiamo per alleviare un po’ il pessimismo. Oltre all’alcol, ovviamente».
Lei però usa l’umorismo come una vera e propria arma.
«Perché lo è. L’ironia può essere davvero un’arma politica devastante e sono stupito che i politici di sinistra non lo usino più spesso».
Nella vita di tutti i giorni lei è coerente con le battaglie sociali e politiche di cui si fa promotore? Se gira un film sulla responsabilità delle multinazionali, poi è attento a non comprarne i prodotti?
«È un problema che non mi pongo perché non credo che l’azione individuale possa ottenere qualche risultato. L’unica maniera per cambiare davvero le cose è attraverso l’azione collettiva».
Come ha investito i soldi che ha guadagnato in questi anni?
«Non ho mai investito in borsa né mai lo farò. Non mi piace l’idea di supportare quel sistema. E poi io vengo dalla classe operaia: non ho la minima idea di come funzioni la borsa, mi sembra un casinò e non ho voglia di rischiare i miei soldi. I guadagni li tengo su un normalissimo conto bancario. Al massimo ho comprato dei titoli statali e poi ho seguito il consiglio che tutti i genitori danno ai figli: compra casa, investi nel mattone perché è l’unica cosa sicura».
Si considera un uomo ricco?
«Sicuramente più ricco di quando guadagnavo 90 dollari a settimana e più della media di molti americani. Vede, la cosa strana del mio paese è che quelli che rientrano nella mia categoria di reddito pagano pochissime tasse e basterebbe cambiare questo, basterebbe far pagare un po’ di più a quelli che guadagnano più di cento mila dollari all’anno per raddrizzare tutto il sistema».
Esiste una forma di capitalismo buono secondo lei?
«È come chiedere se esiste una forma di schiavitù positiva o un bel modo di discriminare le donne. Ovvio che non esiste».
Speravo in una visione leggermente più positiva…
«Ci crediamo liberi perché alla fine del mese abbiamo la busta paga, ma in realtà siamo anche noi schiavi ed è così che guarderanno a noi le generazioni future».
Cosa ne pensa della situazione politica generale? Mi riferisco al fatto che in quasi tutta Europa a prevalere siano i partiti di destra.
«Storicamente è dimostrato che i politici di destra hanno la vita più facile nel convincere gli elettori. Evidentemente c’è qualcosa nel modo di operare e pensare della destra che soddisfa il nostro bisogno di avere un leader forte che ci guidi, che si occuperà di noi, che ci dica che non è colpa nostra ma di qualcun altro».
Lei pensa che film come i suoi possano davvero cambiare il modo in cui la gente vota? Non c’è il rischio di parlare sempre e solo a quelli che già la pensano come lei?>
«Questo è un ottimo punto. Come si convincono quelli che la pensano in modo diverso? Be’ io non mi posso lamentare, so che i miei film raggiungono un pubblico molto vasto che va ben oltre l’elettorato di sinistra».
Appunto: come ci è riuscito?
«Non perdendo mai di vista l’obiettivo principale: fare bei film, che siano piacevoli per chi li guarda. Il problema dei giovani registi di documentari è che si fissano troppo sull’aspetto politico trascurando del tutto l’intrattenimento».
Se lei dovesse dare un consiglio a uno di questi giovani registi, che cosa gli direbbe?
«Che se la sua preoccupazione maggiore non è far divertire gli spettatori, allora è meglio che cambi lavoro. Potrà sempre buttarsi in politica».
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Bellissima intervista! Certo che le ultime risposte di M Moore mi hanno spiazzato!
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